martedì 25 ottobre 2016



Si danno la mano ragazze e ragazzi  e parlano fitto
piano piano sull’altalena,
io li guardo con gli occhi socchiusi e mi scopro
 a sognare che il loro domani
si svegli lì nel parco, a giocare
coi loro pensieri
e speranze appena scoperte;
in ozio sulla panca di legno africano
scolpito da mano compagna
appoggio la testa sul muro
e ricordo.

Io non so come ho fatto ad uscirne,
da quel buco che odorava di cemento fresco
nel cimitero nuovo, a quel tempo; vedevo
aperte le bocche,
ad attendere, diceva mia madre
murata viva in un dolore
senza speranza.

II
Non so come ho fatto
in un giorno di sole a trovare il coraggio
di tornarmene a casa da sola
e lasciarla a parlare
con lui che taceva
della figlia ribelle.
E mi scalda la nuca il cemento, ripenso
a quegli anni a capofitto, persa
la bussola del cuore, la pena infinita
del dire sempre no per non morire
anch’io, pure se a volte
non sapevo io stessa.

E le amiche e le risa e la voglia
di una vita qualunque, che fosse
casa e baci e parlarsi ed amore tranquillo.
I ragazzi nel parco parlottano
perché io non li senta, non sanno
quante volte ho parlato così, gli sorrido
e un po’ cauti, guardandosi,
fanno un piccolo cenno.

III
Chi sa poi perché oggi
un giorno senza niente di speciale
penso a come ho volato attraverso
dolore e follia
e non hanno lasciato che polvere
da scrollarsi con gesto incurante, ma poi
vecchia foto beffarda di occhi brillanti
e scappo dallo specchio che racconta
una storia diversa.

Chi sa perché mi passa per la mente
quel giorno che decisi di partire
e non lo feci, e mai conobbi
la donna che restava.
E,  padre, se prima che tu andassi
a varcare la soglia
t’avessi fatto tutte le domande
forse saprei chi sono.
Credevo d’aver tempo, non sapevo
quel giorno che ci strinsero le mani
e io stranita carezzavo il gatto
che poi scomparve, era il tuo.

Credevo  d’aver tempo, non sapevo
se capita due volte l’occasione
di dirsi tutto.

IV
E facce e gente e amici e case
scogli sul mare e spiagge solitarie
montagne brulle e abeti e funivie
sola con me.
E giorni pieni e riso e pianto e pugni
picchiati fino al sangue, e adesso ancora
la pena del conoscerti il dolore
e niente in mano a dare appena
un po’ di pace
alla vischiosa sofferenza tua
che si nasconde ad ogni tentativo
di conforto.

Qualche volta la tregua, perfino,
orizzonti di mare.

V
E si, il mare. Ne ho pedalati pattini
e son stata sdraiata sul fondo di barche
o mi sono tuffata e talvolta caduta di pancia
e riemersa fingendo di niente il dolore.
Ci ho parlato col mare a occhi chiusi
come adesso in questa pianura di nebbie
parlo al melo dai frutti piccini
che legano i denti, come parlo alla menta
che a toccarla diffonde profumo
fino al viale.
Ma a parlare col mare era piano
era lento il tempo, anche d’inverno
su una strada ad Ortigia a sentire gli spruzzi
furibondi sulla faccia gelata.
era lento l’andare a Marina di sera
sopra il molo di pietre scomposte.

VI
C’è la gente che passeggia sottobraccio
con la maglia annodata sui fianchi, di sera,
quando pensi che il fresco potrebbe
diventare di vento stizzoso,
e la gente cammina senza voglia di rientrare
perché incontra gli amici e si mangia il gelato,
i bambini con i sacchetti
di patatine e lo stuzzicadenti
a strisce colorate.
E nessuno che pensa che è tardi,
non c’è niente da fare domani mattina.

Siamo andati anche ad Erice, un giorno,
che strana quella nebbia di montagna
uscivano dal nulla le figure
incappucciate della processione
di Pasqua.

VII
E un dolore più sordo nel giorno di morte
allungare la mano e carezzare il nulla,
non c’è mare che tenga.
Un giorno di urla e di odio
che anche oggi con la schiena
sul muro caldo
spacca in due.
Un dolore che adesso confonde
tutti i pianti, dal giorno
che tornasti sconfitta.
Chiuso il cerchio, poi a questo tutto torna,
a quella volta che sentii precisa
la consapevolezza del nulla,
il precipizio dell’irrealtà
vestita a festa.

E poi il riso dei ragazzi, al parco,
ad occhi chiusi, e la realtà è  a venire.

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